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"Cuore" - Capitolo 8: Maggio, Dagli Appennini alle Ande. Racconto mensile - parte 2 di 4

Andò in fondo alla bottega e chiamò il ragazzo, che venne subito. - Dimmi un poco, - gli domandò la bottegaia; - ti ricordi che il giovane di Merelli andasse qualche volta a portar delle lettere a una donna di servizio, in casa di figli del paese ? - Dal signor Mequinez, - rispose il ragazzo, sì signora, qualche volta. In fondo a via delle Arti. - Ah, signora, grazie! - gridò Marco. - Mi dica il numero... non lo sa? Mi faccia accompagnare, - accompagnami tu subito, ragazzo; - io ho ancora dei soldi. E disse questo con tanto calore, che senz'aspettar la preghiera della donna, il ragazzo rispose: - andiamo; - e uscì pel primo a passi lesti. Quasi correndo, senza dire una parola, andarono fino in fondo alla via lunghissima, infilarono l'andito d'entrata d'una piccola casa bianca, e si fermarono davanti a un bel cancello di ferro, da cui si vedeva un cortiletto, pieno di vasi di fiori. Marco diede una strappata al campanello. Comparve una signorina. - Qui sta la famiglia Mequinez, non è vero? - domandò ansiosamente il ragazzo. - Ci stava, - rispose la signorina, pronunziando l'italiano alla spagnuola. - Ora ci stiamo noi, Zeballos. - E dove sono andati i Mequinez? - domandò Marco, col batticuore. - Sono andati a Cordova. - Cordova! - esclamò Marco. - Dov'è Cordova? E la persona di servizio che avevano? la donna, mia madre! La donna di servizio era mia madre! Hanno condotto via anche mia madre? La signorina lo guardò e disse: - Non so. Lo saprà forse mio padre, che li ha conosciuti quando partirono. Aspettate un momento. Scappò e tornò poco dopo con suo padre, un signore alto, con la barba grigia. Questi guardò fisso un momento quel tipo simpatico di piccolo marinaio genovese, coi capelli biondi e il naso aquilino, e gli domandò in cattivo italiano: - Tua madre è genovese? Marco rispose di sì. - Ebbene la donna di servizio genovese è andata con loro, lo so di certo. - Dove sono andati? - A Cordova, una città. Il ragazzo mise un sospiro; poi disse con rassegnazione: - Allora... andrò a Cordova. - Ah pobre Niño! - esclamò il signore, guardandolo in aria di pietà. - Povero ragazzo! È a centinaia di miglia di qua, Cordova. Marco diventò pallido come un morto, e s'appoggiò con una mano alla cancellata. - Vediamo, vediamo, - disse allora il signore, mosso a compassione, aprendo la porta, - vieni dentro un momento, vediamo un po' se si può far qualche cosa. - Sedette, gli diè da sedere, gli fece raccontar la sua storia, lo stette a sentire molto attento, rimase un pezzo pensieroso; poi gli disse risolutamente: - Tu non hai denari, non è vero? - Ho ancora... poco, - rispose Marco. Il signore pensò altri cinque minuti, poi si mise a un tavolino, scrisse una lettera, la chiuse, e porgendola al ragazzo, gli disse: - Senti, italianito . Va' con questa lettera alla Boca. È una piccola città mezza genovese, a due ore di strada di qua. Tutti ti sapranno indicare il cammino. Va' là e cerca di questo signore, a cui è diretta la lettera, e che è conosciuto da tutti. Portagli questa lettera. Egli ti farà partire domani per la città di Rosario, e ti raccomanderà a qualcuno lassù, che penserà a farti proseguire il viaggio fino a Cordova, dove troverai la famiglia Mequinez e tua madre. Intanto, piglia questo. - E gli mise in mano qualche lira. - Va', e fatti coraggio; qui hai da per tutto dei compaesani, non rimarrai abbandonato. Adios . Il ragazzo gli disse: - Grazie, - senza trovar altre parole, uscì con la sua sacca, e congedatosi dalla sua piccola guida, si mise lentamente in cammino verso la Boca, pieno di tristezza e di stupore, a traverso alla grande città rumorosa. Tutto quello che gli accadde da quel momento fino alla sera del giorno appresso gli rimase poi nella memoria confuso ed incerto come una fantasticheria di febbricitante, tanto egli era stanco, sconturbato, avvilito. E il giorno appresso, all'imbrunire, dopo aver dormito la notte in una stanzuccia d'una casa della Boca, accanto a un facchino del porto, - dopo aver passata quasi tutta la giornata, seduto sopra un mucchio di travi, e come trasognato, in faccia a migliaia di bastimenti, di barconi e di vaporini, - si trovava a poppa d'una grossa barca a vela, carica di frutte, che partiva per la città di Rosario, condotta da tre robusti genovesi abbronzati dal sole; la voce dei quali, e il dialetto amato che parlavano gli rimise un po' di conforto nel cuore. Partirono, e il viaggio durò tre giorni e quattro notti, e fu uno stupore continuo per il piccolo viaggiatore. Tre giorni e quattro notti su per quel meraviglioso fiume Paranà, rispetto al quale il nostro grande Po non è che un rigagnolo, e la lunghezza dell'Italia, quadruplicata, non raggiunge quella del suo corso. Il barcone andava lentamente a ritroso di quella massa d'acqua smisurata. Passava in mezzo a lunghe isole, già nidi di serpenti e di tigri, coperte d'aranci e di salici, simili a boschi galleggianti; e ora infilava stretti canali, da cui pareva che non potesse più uscire; ora sboccava in vaste distese d'acque, dell'aspetto di grandi laghi tranquilli; poi daccapo fra le isole, per i canali intricati d'un arcipelago, in mezzo a mucchi enormi di vegetazione. Regnava un silenzio profondo. Per lunghi tratti, le rive e le acque solitarie e vastissime davan l'immagine d'un fiume sconosciuto, in cui quella povera vela fosse la prima al mondo ad avventurarsi. Quanto più s'avanzavano, e tanto più quel mostruoso fiume lo sgomentava. Egli immaginava che sua madre si trovasse alle sorgenti, e che la navigazione dovesse durare degli anni. Due volte al giorno mangiava un po' di pane e di carne salata coi barcaioli, i quali, vedendolo triste, non gli rivolgevan mai la parola. La notte dormiva sopra coperta, e si svegliava ogni tanto, bruscamente, stupito della luce limpidissima della luna che imbiancava le acque immense e le rive lontane; e allora il cuore gli si serrava. - Cordova! - Egli ripeteva quel nome: - Cordova! - come il nome d'una di quelle città misteriose, delle quali aveva inteso parlare nelle favole. Ma poi pensava: - Mia madre è passata di qui, ha visto queste isole, quelle rive, - e allora non gli parevan più tanto strani e solitari quei luoghi in cui lo sguardo di sua madre s'era posato... La notte, uno dei barcaiuoli cantava. Quella voce gli rammentava le canzoni di sua madre, quando l'addormentava bambino. L'ultima notte, all'udir quel canto, singhiozzò. Il barcaiuolo s'interruppe. Poi gli gridò: - Animo, animo, figioeu! Che diavolo! Un genovese che piange perché è lontano da casa! I genovesi girano il mondo gloriosi e trionfanti! - E a quelle parole egli si riscosse, sentì la voce del sangue genovese, e rialzò la fronte con alterezza, battendo il pugno sul timone. - Ebbene, si - disse tra sé, - dovessi anch'io girare tutto il mondo, viaggiare ancora per anni e anni, e fare delle centinaia di miglia a piedi, io andrò avanti, fin che troverò mia madre. Dovessi arrivare moribondo, e cascar morto ai suoi piedi! Pur che io la riveda una volta! Coraggio! - E con quest'animo arrivò allo spuntar d'un mattino rosato e freddo di fronte alla città di Rosario, posta sulla riva alta del Paranà, dove si specchiavan nelle acque le antenne imbandierate di cento bastimenti d'ogni paese. Poco dopo sbarcato, salì alla città, con la sua sacca alla mano, a cercare un signore argentino per cui il suo protettore della Boca gli aveva rimesso un biglietto di visita con qualche parola di raccomandazione. Entrando in Rosario gli parve d'entrare in una città già conosciuta. Erano quelle vie interminabili, diritte, fiancheggiate di case basse e bianche, attraversate in tutte le direzioni, al disopra dei tetti, da grandi fasci di fili telegrafici e telefonici, che parevano enormi ragnateli; e un gran trepestio di gente, di cavalli, di carri. La testa gli si confondeva: credette quasi di rientrare a Buenos Aires, e di dover cercare un'altra volta il cugino. Andò attorno per quasi un'ora, svoltando e risvoltando, e sembrandogli sempre di tornar nella medesima via; e a furia di domandare, trovò la casa del suo nuovo protettore. Tirò il campanello. S'affacciò alla porta un grosso uomo biondo, arcigno, che aveva l'aria d'un fattore, e che gli domandò sgarbatamente, con pronunzia straniera: - Che vuoi? Il ragazzo disse il nome del padrone. - Il padrone, - rispose il fattore, - è partito ieri sera per Buenos Aires con tutta la sua famiglia. Il ragazzo restò senza parola. Poi balbettò: - Ma io... non ho nessuno qui! Sono solo! - E porse il biglietto. Il fattore lo prese, lo lesse e disse burberamente: - Non so che farci. Glielo darò fra un mese, quando ritornerà. - Ma io, io son solo! io ho bisogno! - esclamò il ragazzo, con voce di preghiera. - Eh! andiamo, - disse l'altro; - non ce n'è ancora abbastanza della gramigna del tuo paese a Rosario! Vattene un po' a mendicare in Italia. - E gli chiuse il cancello sulla faccia. Il ragazzo restò là come impietrato. Poi riprese lentamente la sua sacca, ed uscì, col cuore angosciato, con la mente in tumulto, assalito a un tratto da mille pensieri affannosi. Che fare? dove andare? Da Rosario a Cordova c'era una giornata di strada ferrata. Egli non aveva più che poche lire. Levato quello che gli occorreva di spendere quel giorno, non gli sarebbe rimasto quasi nulla. Dove trovare i denari per pagarsi il viaggio? Poteva lavorare. Ma come, a chi domandar lavoro? Chieder l'elemosina! Ah! no, essere respinto, insultato, umiliato come poc'anzi, no, mai, mai più, piuttosto morire! - E a quell'idea, e al riveder davanti a sé la lunghissima via che si perdeva lontano nella pianura sconfinata, si sentì fuggire un'altra volta il coraggio, gettò la sacca sul marciapiede, vi sedette su con le spalle al muro, e chinò il viso tra le mani, senza pianto, in un atteggiamento desolato. La gente l'urtava coi piedi passando; i carri empivan la via di rumore; alcuni ragazzi si fermarono a guardarlo. Egli rimase un pezzo così. Quando fu scosso da una voce che gli disse tra in italiano e in lombardo: - Che cos'hai, ragazzetto? Alzò il viso a quelle parole, e subito balzò in piedi gettando un'esclamazione di meraviglia: - Voi qui! Era il vecchio contadino lombardo, col quale aveva fatto amicizia nel viaggio. La meraviglia del contadino non fu minore della sua. Ma il ragazzo non gli lasciò il tempo d'interrogarlo, e gli raccontò rapidamente i casi suoi. - Ora son senza soldi, ecco; bisogna che lavori; trovatemi voi del lavoro da poter mettere insieme qualche lira; io faccio qualunque cosa; porto roba, spazzo le strade, posso far commissioni, anche lavorare in campagna; mi contento di campare di pan nero; ma che possa partir presto, che possa trovare una volta mia madre, fatemi questa carità, del lavoro, trovatemi voi del lavoro, per amor di Dio, che non ne posso più! - Diamine, diamine, - disse il contadino, guardandosi attorno e grattandosi il mento. - Che storia è questa!... Lavorare... è presto detto. Vediamo un po'. Che non ci sia mezzo di trovar trenta lire fra tanti patriotti ? Il ragazzo lo guardava, confortato da un raggio di speranza. - Vieni con me, - gli disse il contadino. - Dove? - domandò il ragazzo, ripigliando la sacca. - Vieni con me. Il contadino si mosse, Marco lo seguì, fecero un lungo tratto di strada insieme, senza parlare. Il contadino si fermò alla porta d'un'osteria che aveva per insegna una stella e scritto sotto: - La estrella de Italia ; - mise il viso dentro e voltandosi verso il ragazzo disse allegramente: - Arriviamo in buon punto. - Entrarono in uno stanzone, dov'eran varie tavole, e molti uomini seduti, che bevevano, parlando forte. Il vecchio lombardo s'avvicinò alla prima tavola, e dal modo come salutò i sei avventori che ci stavano intorno, si capiva ch'era stato in loro compagnia fino a poco innanzi. Erano rossi in viso e facevan sonare bicchieri, vociando e ridendo. - Camerati, - disse senz'altro il lombardo, restando in piedi, e presentando Marco; - c'è qui un povero ragazzo nostro patriotta , che è venuto solo da Genova a Buenos Aires a cercare sua madre. A Buenos Aires gli dissero: - Qui non c'è, è a Cordova. - Viene in barca a Rosario, tre dì e tre notti, con due righe di raccomandazione; presenta la carta: gli fanno una figuraccia. Non ha la croce d'un centesimo. È qui solo come un disperato. È un bagai pieno di cuore. Vediamo un poco. Non ha da trovar tanto da pagare il biglietto per andare a Cordova a trovar sua madre? L'abbiamo da lasciar qui come un cane? - Mai al mondo, perdio! - Mai non sarà detto questo! - gridarono tutti insieme, battendo il pugno sul tavolo. - Un patriotta nostro! - Vieni qua, piccolino. - Ci siamo noi, gli emigranti! - Guarda che bel monello. - Fuori dei quattrini, camerati. - Bravo! Venuto solo! Hai del fegato! - Bevi un sorso, patriotta . - Ti manderemo da tua madre, non pensare. - E uno gli dava un pizzicotto alla guancia, un altro gli batteva la mano sulla spalla, un terzo lo liberava dalla sacca; altri emigranti s'alzarono dalle tavole vicine e s'avvicinarono; la storia del ragazzo fece il giro dell'osteria; accorsero dalla stanza accanto tre avventori argentini; e in meno di dieci minuti il contadino lombardo che porgeva il cappello, ci ebbe dentro quarantadue lire. - Hai Visto, - disse allora, voltandosi verso il ragazzo, - come si fa presto in America? - Bevi - gli gridò un altro, porgendogli un bicchiere di vino: - Alla salute di tua madre! - Tutti alzarono i bicchieri. - E Marco ripeté: - Alla salute di mia... - Ma un singhiozzo di gioia gli chiuse la gola, e rimesso il bicchiere sulla tavola, si gettò al collo del suo vecchio. La mattina seguente, allo spuntare del giorno, egli era già partito per Cordova, ardito e ridente, pieno di presentimenti felici. Ma non c'è allegrezza che regga a lungo davanti a certi aspetti sinistri della natura. Il tempo era chiuso e grigio; il treno, presso che vuoto, correva a traverso a un'immensa pianura priva d'ogni segno d'abitazione. Egli si trovava solo in un vagone lunghissimo, che somigliava a quelli dei treni per i feriti. Guardava a destra, guardava a sinistra, e non vedeva che una solitudine senza fine, sparsa di piccoli alberi deformi, dai tronchi e dai rami scontorti, in atteggiamenti non mai veduti, quasi d'ira e d'angoscia; una vegetazione scura, rada e triste, che dava alla pianura l'apparenza d'uno sterminato cimitero. Sonnecchiava mezz'ora, tornava a guardare: era sempre lo stesso spettacolo. Le stazioni della strada ferrata eran solitarie, come case di eremiti; e quando il treno si fermava, non si sentiva una voce; gli pareva di trovarsi solo in un treno, perduto, abbandonato in mezzo a un deserto. Gli sembrava che ogni stazione dovesse essere l'ultima, e che s'entrasse dopo quella nelle terre misteriose e spaurevoli dei selvaggi. Una brezza gelata gli mordeva il viso. Imbarcandolo a Genova sul finir d'aprile, i suoi non avevan pensato che in America egli avrebbe trovato l'inverno, e l'avevan vestito da estate. Dopo alcune ore, incominciò a soffrire il freddo, e col freddo, la stanchezza dei giorni passati, pieni di commozioni violente, e delle notti insonni e travagliate. Si addormentò, dormì lungo tempo, si svegliò intirizzito; si sentiva male. E allora gli prese un vago terrore di cader malato e di morir per viaggio, e d'esser buttato là in mezzo a quella pianura desolata, dove il suo cadavere sarebbe stato dilaniato dai cani e dagli uccelli di rapina, come certi corpi di cavalli e di vacche che vedeva tratto tratto accanto alla strada, e da cui torceva lo sguardo con ribrezzo. In quel malessere inquieto, in mezzo a quel silenzio tetro della natura, la sua immaginazione s'eccitava e volgeva al nero. Era poi ben sicuro di trovarla, a Cordova, sua madre? E se non ci fosse stata? Se quel signore di via delle Arti avesse sbagliato? E se fosse morta? In questi pensieri si riaddormentò, sognò d'essere a Cordova di notte, e di sentirsi gridare da tutte le porte e da tutte le finestre: - Non c'è! Non c'è! Non c'è! - si risvegliò di sobbalzo, atterrito, e vide in fondo al vagone tre uomini barbuti, ravvolti in scialli di vari colori, che lo guardavano, parlando basso tra di loro; e gli balenò il sospetto che fossero assassini e lo volessero uccidere, per rubargli la sacca. Al freddo, al malessere gli s'aggiunse la paura; la fantasia già turbata gli si stravolse; - i tre uomini lo fissavano sempre, - uno di essi mosse verso di lui; - allora egli smarrì la ragione, e correndogli incontro con le braccia aperte, gridò: - Non ho nulla. Sono un povero ragazzo. Vengo dall'Italia, vo a cercar mia madre, son solo; non mi fate del male! - Quelli capirono subito, n'ebbero pietà, lo carezzarono e lo racquetarono, dicendogli molte parole che non intendeva; e vedendo che batteva i denti dal freddo, gli misero addosso uno dei loro scialli, e lo fecero risedere perché dormisse. E si riaddormentò, che imbruniva. Quando lo svegliarono, era a Cordova.

(continua)

Andò in fondo alla bottega e chiamò il ragazzo, che venne subito. - Dimmi un poco, - gli domandò la bottegaia; - ti ricordi che il giovane di Merelli andasse qualche volta a portar delle lettere a una donna di servizio, in casa di figli del paese?
- Dal signor Mequinez, - rispose il ragazzo, sì signora, qualche volta. In fondo a via delle Arti.
- Ah, signora, grazie! - gridò Marco. - Mi dica il numero... non lo sa? Mi faccia accompagnare, - accompagnami tu subito, ragazzo; - io ho ancora dei soldi.
E disse questo con tanto calore, che senz'aspettar la preghiera della donna, il ragazzo rispose: - andiamo; - e uscì pel primo a passi lesti.
Quasi correndo, senza dire una parola, andarono fino in fondo alla via lunghissima, infilarono l'andito d'entrata d'una piccola casa bianca, e si fermarono davanti a un bel cancello di ferro, da cui si vedeva un cortiletto, pieno di vasi di fiori. Marco diede una strappata al campanello.
Comparve una signorina.
- Qui sta la famiglia Mequinez, non è vero? - domandò ansiosamente il ragazzo.
- Ci stava, - rispose la signorina, pronunziando l'italiano alla spagnuola. - Ora ci stiamo noi, Zeballos.
- E dove sono andati i Mequinez? - domandò Marco, col batticuore.
- Sono andati a Cordova.
- Cordova! - esclamò Marco. - Dov'è Cordova? E la persona di servizio che avevano? la donna, mia madre! La donna di servizio era mia madre! Hanno condotto via anche mia madre?
La signorina lo guardò e disse: - Non so. Lo saprà forse mio padre, che li ha conosciuti quando partirono. Aspettate un momento.
Scappò e tornò poco dopo con suo padre, un signore alto, con la barba grigia. Questi guardò fisso un momento quel tipo simpatico di piccolo marinaio genovese, coi capelli biondi e il naso aquilino, e gli domandò in cattivo italiano: - Tua madre è genovese?
Marco rispose di sì.
- Ebbene la donna di servizio genovese è andata con loro, lo so di certo.
- Dove sono andati?
- A Cordova, una città.
Il ragazzo mise un sospiro; poi disse con rassegnazione: - Allora... andrò a Cordova.
- Ah pobre Niño! - esclamò il signore, guardandolo in aria di pietà. - Povero ragazzo! È a centinaia di miglia di qua, Cordova.
Marco diventò pallido come un morto, e s'appoggiò con una mano alla cancellata.
- Vediamo, vediamo, - disse allora il signore, mosso a compassione, aprendo la porta, - vieni dentro un momento, vediamo un po' se si può far qualche cosa. - Sedette, gli diè da sedere, gli fece raccontar la sua storia, lo stette a sentire molto attento, rimase un pezzo pensieroso; poi gli disse risolutamente: - Tu non hai denari, non è vero?
- Ho ancora... poco, - rispose Marco.
Il signore pensò altri cinque minuti, poi si mise a un tavolino, scrisse una lettera, la chiuse, e porgendola al ragazzo, gli disse: - Senti, italianito. Va' con questa lettera alla Boca. È una piccola città mezza genovese, a due ore di strada di qua. Tutti ti sapranno indicare il cammino. Va' là e cerca di questo signore, a cui è diretta la lettera, e che è conosciuto da tutti. Portagli questa lettera. Egli ti farà partire domani per la città di Rosario, e ti raccomanderà a qualcuno lassù, che penserà a farti proseguire il viaggio fino a Cordova, dove troverai la famiglia Mequinez e tua madre. Intanto, piglia questo. - E gli mise in mano qualche lira. - Va', e fatti coraggio; qui hai da per tutto dei compaesani, non rimarrai abbandonato. Adios.
Il ragazzo gli disse: - Grazie, - senza trovar altre parole, uscì con la sua sacca, e congedatosi dalla sua piccola guida, si mise lentamente in cammino verso la Boca, pieno di tristezza e di stupore, a traverso alla grande città rumorosa.
Tutto quello che gli accadde da quel momento fino alla sera del giorno appresso gli rimase poi nella memoria confuso ed incerto come una fantasticheria di febbricitante, tanto egli era stanco, sconturbato, avvilito. E il giorno appresso, all'imbrunire, dopo aver dormito la notte in una stanzuccia d'una casa della Boca, accanto a un facchino del porto, - dopo aver passata quasi tutta la giornata, seduto sopra un mucchio di travi, e come trasognato, in faccia a migliaia di bastimenti, di barconi e di vaporini, - si trovava a poppa d'una grossa barca a vela, carica di frutte, che partiva per la città di Rosario, condotta da tre robusti genovesi abbronzati dal sole; la voce dei quali, e il dialetto amato che parlavano gli rimise un po' di conforto nel cuore.

Partirono, e il viaggio durò tre giorni e quattro notti, e fu uno stupore continuo per il piccolo viaggiatore. Tre giorni e quattro notti su per quel meraviglioso fiume Paranà, rispetto al quale il nostro grande Po non è che un rigagnolo, e la lunghezza dell'Italia, quadruplicata, non raggiunge quella del suo corso. Il barcone andava lentamente a ritroso di quella massa d'acqua smisurata. Passava in mezzo a lunghe isole, già nidi di serpenti e di tigri, coperte d'aranci e di salici, simili a boschi galleggianti; e ora infilava stretti canali, da cui pareva che non potesse più uscire; ora sboccava in vaste distese d'acque, dell'aspetto di grandi laghi tranquilli; poi daccapo fra le isole, per i canali intricati d'un arcipelago, in mezzo a mucchi enormi di vegetazione. Regnava un silenzio profondo. Per lunghi tratti, le rive e le acque solitarie e vastissime davan l'immagine d'un fiume sconosciuto, in cui quella povera vela fosse la prima al mondo ad avventurarsi. Quanto più s'avanzavano, e tanto più quel mostruoso fiume lo sgomentava. Egli immaginava che sua madre si trovasse alle sorgenti, e che la navigazione dovesse durare degli anni. Due volte al giorno mangiava un po' di pane e di carne salata coi barcaioli, i quali, vedendolo triste, non gli rivolgevan mai la parola. La notte dormiva sopra coperta, e si svegliava ogni tanto, bruscamente, stupito della luce limpidissima della luna che imbiancava le acque immense e le rive lontane; e allora il cuore gli si serrava. - Cordova! - Egli ripeteva quel nome: - Cordova! - come il nome d'una di quelle città misteriose, delle quali aveva inteso parlare nelle favole. Ma poi pensava: - Mia madre è passata di qui, ha visto queste isole, quelle rive, - e allora non gli parevan più tanto strani e solitari quei luoghi in cui lo sguardo di sua madre s'era posato... La notte, uno dei barcaiuoli cantava. Quella voce gli rammentava le canzoni di sua madre, quando l'addormentava bambino. L'ultima notte, all'udir quel canto, singhiozzò. Il barcaiuolo s'interruppe. Poi gli gridò: - Animo, animo, figioeu! Che diavolo! Un genovese che piange perché è lontano da casa! I genovesi girano il mondo gloriosi e trionfanti! - E a quelle parole egli si riscosse, sentì la voce del sangue genovese, e rialzò la fronte con alterezza, battendo il pugno sul timone. - Ebbene, si - disse tra sé, - dovessi anch'io girare tutto il mondo, viaggiare ancora per anni e anni, e fare delle centinaia di miglia a piedi, io andrò avanti, fin che troverò mia madre. Dovessi arrivare moribondo, e cascar morto ai suoi piedi! Pur che io la riveda una volta! Coraggio! - E con quest'animo arrivò allo spuntar d'un mattino rosato e freddo di fronte alla città di Rosario, posta sulla riva alta del Paranà, dove si specchiavan nelle acque le antenne imbandierate di cento bastimenti d'ogni paese.

Poco dopo sbarcato, salì alla città, con la sua sacca alla mano, a cercare un signore argentino per cui il suo protettore della Boca gli aveva rimesso un biglietto di visita con qualche parola di raccomandazione. Entrando in Rosario gli parve d'entrare in una città già conosciuta. Erano quelle vie interminabili, diritte, fiancheggiate di case basse e bianche, attraversate in tutte le direzioni, al disopra dei tetti, da grandi fasci di fili telegrafici e telefonici, che parevano enormi ragnateli; e un gran trepestio di gente, di cavalli, di carri. La testa gli si confondeva: credette quasi di rientrare a Buenos Aires, e di dover cercare un'altra volta il cugino. Andò attorno per quasi un'ora, svoltando e risvoltando, e sembrandogli sempre di tornar nella medesima via; e a furia di domandare, trovò la casa del suo nuovo protettore. Tirò il campanello. S'affacciò alla porta un grosso uomo biondo, arcigno, che aveva l'aria d'un fattore, e che gli domandò sgarbatamente, con pronunzia straniera:
- Che vuoi?
Il ragazzo disse il nome del padrone.
- Il padrone, - rispose il fattore, - è partito ieri sera per Buenos Aires con tutta la sua famiglia.
Il ragazzo restò senza parola.
Poi balbettò: - Ma io... non ho nessuno qui! Sono solo! - E porse il biglietto.
Il fattore lo prese, lo lesse e disse burberamente: - Non so che farci. Glielo darò fra un mese, quando ritornerà.
- Ma io, io son solo! io ho bisogno! - esclamò il ragazzo, con voce di preghiera.
- Eh! andiamo, - disse l'altro; - non ce n'è ancora abbastanza della gramigna del tuo paese a Rosario! Vattene un po' a mendicare in Italia. - E gli chiuse il cancello sulla faccia.
Il ragazzo restò là come impietrato.
Poi riprese lentamente la sua sacca, ed uscì, col cuore angosciato, con la mente in tumulto, assalito a un tratto da mille pensieri affannosi. Che fare? dove andare? Da Rosario a Cordova c'era una giornata di strada ferrata. Egli non aveva più che poche lire. Levato quello che gli occorreva di spendere quel giorno, non gli sarebbe rimasto quasi nulla. Dove trovare i denari per pagarsi il viaggio? Poteva lavorare. Ma come, a chi domandar lavoro? Chieder l'elemosina! Ah! no, essere respinto, insultato, umiliato come poc'anzi, no, mai, mai più, piuttosto morire! - E a quell'idea, e al riveder davanti a sé la lunghissima via che si perdeva lontano nella pianura sconfinata, si sentì fuggire un'altra volta il coraggio, gettò la sacca sul marciapiede, vi sedette su con le spalle al muro, e chinò il viso tra le mani, senza pianto, in un atteggiamento desolato.
La gente l'urtava coi piedi passando; i carri empivan la via di rumore; alcuni ragazzi si fermarono a guardarlo. Egli rimase un pezzo così.
Quando fu scosso da una voce che gli disse tra in italiano e in lombardo: - Che cos'hai, ragazzetto?
Alzò il viso a quelle parole, e subito balzò in piedi gettando un'esclamazione di meraviglia: - Voi qui!
Era il vecchio contadino lombardo, col quale aveva fatto amicizia nel viaggio.
La meraviglia del contadino non fu minore della sua. Ma il ragazzo non gli lasciò il tempo d'interrogarlo, e gli raccontò rapidamente i casi suoi. - Ora son senza soldi, ecco; bisogna che lavori; trovatemi voi del lavoro da poter mettere insieme qualche lira; io faccio qualunque cosa; porto roba, spazzo le strade, posso far commissioni, anche lavorare in campagna; mi contento di campare di pan nero; ma che possa partir presto, che possa trovare una volta mia madre, fatemi questa carità, del lavoro, trovatemi voi del lavoro, per amor di Dio, che non ne posso più!
- Diamine, diamine, - disse il contadino, guardandosi attorno e grattandosi il mento. - Che storia è questa!... Lavorare... è presto detto. Vediamo un po'. Che non ci sia mezzo di trovar trenta lire fra tanti patriotti?
Il ragazzo lo guardava, confortato da un raggio di speranza.
- Vieni con me, - gli disse il contadino.
- Dove? - domandò il ragazzo, ripigliando la sacca.
- Vieni con me.
Il contadino si mosse, Marco lo seguì, fecero un lungo tratto di strada insieme, senza parlare. Il contadino si fermò alla porta d'un'osteria che aveva per insegna una stella e scritto sotto: - La estrella de Italia; - mise il viso dentro e voltandosi verso il ragazzo disse allegramente: - Arriviamo in buon punto. - Entrarono in uno stanzone, dov'eran varie tavole, e molti uomini seduti, che bevevano, parlando forte. Il vecchio lombardo s'avvicinò alla prima tavola, e dal modo come salutò i sei avventori che ci stavano intorno, si capiva ch'era stato in loro compagnia fino a poco innanzi. Erano rossi in viso e facevan sonare bicchieri, vociando e ridendo.
- Camerati, - disse senz'altro il lombardo, restando in piedi, e presentando Marco; - c'è qui un povero ragazzo nostro patriotta, che è venuto solo da Genova a Buenos Aires a cercare sua madre. A Buenos Aires gli dissero: - Qui non c'è, è a Cordova. - Viene in barca a Rosario, tre dì e tre notti, con due righe di raccomandazione; presenta la carta: gli fanno una figuraccia. Non ha la croce d'un centesimo. È qui solo come un disperato. È un bagai pieno di cuore. Vediamo un poco. Non ha da trovar tanto da pagare il biglietto per andare a Cordova a trovar sua madre? L'abbiamo da lasciar qui come un cane?
- Mai al mondo, perdio! - Mai non sarà detto questo! - gridarono tutti insieme, battendo il pugno sul tavolo. - Un patriotta nostro! - Vieni qua, piccolino. - Ci siamo noi, gli emigranti! - Guarda che bel monello. - Fuori dei quattrini, camerati. - Bravo! Venuto solo! Hai del fegato! - Bevi un sorso, patriotta. - Ti manderemo da tua madre, non pensare. - E uno gli dava un pizzicotto alla guancia, un altro gli batteva la mano sulla spalla, un terzo lo liberava dalla sacca; altri emigranti s'alzarono dalle tavole vicine e s'avvicinarono; la storia del ragazzo fece il giro dell'osteria; accorsero dalla stanza accanto tre avventori argentini; e in meno di dieci minuti il contadino lombardo che porgeva il cappello, ci ebbe dentro quarantadue lire. - Hai Visto, - disse allora, voltandosi verso il ragazzo, - come si fa presto in America? - Bevi - gli gridò un altro, porgendogli un bicchiere di vino: - Alla salute di tua madre! - Tutti alzarono i bicchieri. - E Marco ripeté: - Alla salute di mia... - Ma un singhiozzo di gioia gli chiuse la gola, e rimesso il bicchiere sulla tavola, si gettò al collo del suo vecchio.
La mattina seguente, allo spuntare del giorno, egli era già partito per Cordova, ardito e ridente, pieno di presentimenti felici. Ma non c'è allegrezza che regga a lungo davanti a certi aspetti sinistri della natura. Il tempo era chiuso e grigio; il treno, presso che vuoto, correva a traverso a un'immensa pianura priva d'ogni segno d'abitazione. Egli si trovava solo in un vagone lunghissimo, che somigliava a quelli dei treni per i feriti. Guardava a destra, guardava a sinistra, e non vedeva che una solitudine senza fine, sparsa di piccoli alberi deformi, dai tronchi e dai rami scontorti, in atteggiamenti non mai veduti, quasi d'ira e d'angoscia; una vegetazione scura, rada e triste, che dava alla pianura l'apparenza d'uno sterminato cimitero. Sonnecchiava mezz'ora, tornava a guardare: era sempre lo stesso spettacolo. Le stazioni della strada ferrata eran solitarie, come case di eremiti; e quando il treno si fermava, non si sentiva una voce; gli pareva di trovarsi solo in un treno, perduto, abbandonato in mezzo a un deserto. Gli sembrava che ogni stazione dovesse essere l'ultima, e che s'entrasse dopo quella nelle terre misteriose e spaurevoli dei selvaggi. Una brezza gelata gli mordeva il viso. Imbarcandolo a Genova sul finir d'aprile, i suoi non avevan pensato che in America egli avrebbe trovato l'inverno, e l'avevan vestito da estate. Dopo alcune ore, incominciò a soffrire il freddo, e col freddo, la stanchezza dei giorni passati, pieni di commozioni violente, e delle notti insonni e travagliate. Si addormentò, dormì lungo tempo, si svegliò intirizzito; si sentiva male. E allora gli prese un vago terrore di cader malato e di morir per viaggio, e d'esser buttato là in mezzo a quella pianura desolata, dove il suo cadavere sarebbe stato dilaniato dai cani e dagli uccelli di rapina, come certi corpi di cavalli e di vacche che vedeva tratto tratto accanto alla strada, e da cui torceva lo sguardo con ribrezzo. In quel malessere inquieto, in mezzo a quel silenzio tetro della natura, la sua immaginazione s'eccitava e volgeva al nero. Era poi ben sicuro di trovarla, a Cordova, sua madre? E se non ci fosse stata? Se quel signore di via delle Arti avesse sbagliato? E se fosse morta? In questi pensieri si riaddormentò, sognò d'essere a Cordova di notte, e di sentirsi gridare da tutte le porte e da tutte le finestre: - Non c'è! Non c'è! Non c'è! - si risvegliò di sobbalzo, atterrito, e vide in fondo al vagone tre uomini barbuti, ravvolti in scialli di vari colori, che lo guardavano, parlando basso tra di loro; e gli balenò il sospetto che fossero assassini e lo volessero uccidere, per rubargli la sacca. Al freddo, al malessere gli s'aggiunse la paura; la fantasia già turbata gli si stravolse; - i tre uomini lo fissavano sempre, - uno di essi mosse verso di lui; - allora egli smarrì la ragione, e correndogli incontro con le braccia aperte, gridò: - Non ho nulla. Sono un povero ragazzo. Vengo dall'Italia, vo a cercar mia madre, son solo; non mi fate del male! - Quelli capirono subito, n'ebbero pietà, lo carezzarono e lo racquetarono, dicendogli molte parole che non intendeva; e vedendo che batteva i denti dal freddo, gli misero addosso uno dei loro scialli, e lo fecero risedere perché dormisse. E si riaddormentò, che imbruniva. Quando lo svegliarono, era a Cordova.

(continua)