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"Cuore" - Capitolo 8: Maggio, Dagli Appennini alle Ande. Racconto mensile - parte 4 di 4

Il giorno dopo, di buon mattino, con la sua sacca sulle spalle, curvo e zoppicante, ma pieno d'animo, Marco entrava nella città di Tucuman, una delle più giovani e delle più floride città della Repubblica Argentina. Gli parve di rivedere Cordova, Rosario, Buenos Aires: erano quelle stesse vie diritte e lunghissime, e quelle case basse e bianche; ma da ogni parte una vegetazione nuova e magnifica, un'aria profumata, una luce meravigliosa, un cielo limpido e profondo, come egli non l'aveva mai visto, neppure in Italia. Andando innanzi per le vie, riprovò l'agitazione febbrile che lo aveva preso a Buenos Aires; guardava le finestre e le porte di tutte le case; guardava tutte le donne che passavano, con una speranza affannosa di incontrar sua madre; avrebbe voluto interrogar tutti, e non osava fermar nessuno. Tutti di sugli usci, si voltavano a guardar quel povero ragazzo stracciato e polveroso, che mostrava di venir di tanto lontano. Ed egli cercava fra la gente un viso che gl'ispirasse fiducia, per rivolgergli quella tremenda domanda, quando gli caddero gli occhi sopra un insegna di bottega, su cui era scritto un nome italiano. C'era dentro un uomo con gli occhiali e due donne. Egli s'avvicinò lentamente alla porta, e fatto un animo risoluto, domandò: - Mi saprebbe dire, signore, dove sta la famiglia Mequinez? - Dell' ingeniero Mequinez? - domandò il bottegaio alla sua volta. - Dell'ingegnere Mequinez, - rispose il ragazzo, con un fil di voce. - La famiglia Mequinez, - disse il bottegaio, - non è a Tucuman. Un grido di disperato dolore, come d'una persona pugnalata, fece eco a quelle parole. Il bottegaio e le donne s'alzarono, alcuni vicini accorsero. - Che c'è? che hai, ragazzo? - disse il bottegaio, tirandolo nella bottega e facendolo sedere; - non c'è da disperarsi, che diavolo! I Mequinez non sono qui, ma poco lontano, a poche ore da Tucuman! - Dove? dove? - gridò Marco, saltando su come un resuscitato. - A una quindicina di miglia di qua, - continuò l'uomo, - in riva al Saladillo, in un luogo dove stanno costruendo una grande fabbrica da zucchero, un gruppo di case, c'è la casa del signor Mequinez, tutti lo sanno, ci arriverai in poche ore. - Ci son stato io un mese fa, - disse un giovane che era accorso al grido. Marco lo guardò con gli occhi grandi e gli domandò precipitosamente, impallidendo: - Avete visto la donna di servizio del signor Mequinez, l'italiana? - La jenovesa ? L'ho vista. Marco ruppe in un singhiozzo convulso, tra di riso e di pianto. Poi con un impeto di risoluzione violenta: - Dove si passa, presto, la strada, parto subito, insegnatemi la strada! - Ma c'è una giornata di marcia, - gli dissero tutti insieme, - sei stanco, devi riposare, partirai domattina. - Impossibile! Impossibile! - rispose il ragazzo. - Ditemi dove si passa, non aspetto più un momento, parto subito, dovessi morire per via! Vistolo irremovibile, non s'opposero più. - Dio t'accompagni, - gli dissero. - Bada alla via per la foresta. - Buon viaggio, italianito . - Un uomo l'accompagnò fuori di città, gli indicò il cammino, gli diede qualche consiglio e stette a vederlo partire. In capo a pochi minuti, il ragazzo scomparve, zoppicando, con la sua sacca sulle spalle, dietro agli alberi folti che fiancheggiavan la strada.

Quella notte fu tremenda per la povera inferma. Essa aveva dei dolori atroci che le strappavan degli urli da rompersi le vene, e le davan dei momenti di delirio. Le donne che l'assistevano, perdevan la testa. La padrona accorreva di tratto in tratto, sgomentata. Tutti cominciarono a temere che, se anche si fosse decisa a lasciarsi operare, il medico che doveva venire la mattina dopo, sarebbe arrivato troppo tardi. Nei momenti che non delirava, però, si capiva che il suo più terribile strazio non erano i dolori del corpo, ma il pensiero della famiglia lontana. Smorta, disfatta, col viso mutato, si cacciava le mani nei capelli con un atto di disperazione che passava l'anima, e gridava: - Dio mio! Dio mio! Morire tanto lontana, morire senza rivederli! I miei poveri figliuoli, che rimangono senza madre, le mie creature, il povero sangue mio! Il mio Marco, che è ancora così piccolo, alto così, tanto buono e affettuoso! Voi non sapete che ragazzo era! Signora, se sapesse! Non me lo potevo staccare dal collo quando son partita, singhiozzava da far compassione, singhiozzava; pareva che lo sapesse che non avrebbe mai più rivisto sua madre, povero Marco, povero bambino mio! Credevo che mi scoppiasse il cuore! Ah se fossi morta allora, morta mentre mi diceva addio! morta fulminata fossi! Senza madre, povero bambino, lui che m'amava tanto, che aveva tanto bisogno di me, senza madre, nella miseria, dovrà andare accattando, lui, Marco, Marco mio, che tenderà la mano, affamato! Oh! Dio eterno! No! Non voglio morire! Il medico! Chiamatelo subito! Venga, mi tagli, mi squarci il seno, mi faccia impazzire, ma mi salvi la vita! Voglio guarire, voglio vivere, partire, fuggire, domani, subito! Il medico! Aiuto! Aiuto! - E le donne le afferavan le mani, la palpavano, pregando, la facevano tornare in sé a poco a poco, e le parlavan di Dio e di speranza. E allora essa ricadeva in un abbattimento mortale, piangeva, con le mani nei capelli grigi, gemeva come una bambina, mettendo un lamento prolungato, e mormorando di tratto in tratto: - Oh la mia Genova! La mia casa! Tutto quel mare!... Oh Marco mio, il mio povero Marco! Dove sarà ora, la povera creatura mia!

Era mezzanotte; e il suo povero Marco, dopo aver passato molte ore sulla sponda d'un fosso, stremato di forze, camminava allora attraverso a una foresta vastissima di alberi giganteschi, mostri della vegetazione, dai fusti smisurati, simili a pilastri di cattedrali, che intrecciavano a un'altezza meravigliosa le loro enormi chiome inargentate dalla luna. Vagamente, in quella mezza oscurità, egli vedeva miriadi di tronchi di tutte le forme, ritti, inclinati, scontorti, incrociati in atteggiamenti strani di minaccia e di lotta; alcuni rovesciati a terra, come torri cadute tutte d'un pezzo, e coperti d'una vegetazione fitta e confusa, che pareva una folla furente che se li disputasse a palmo a palmo; altri raccolti in grandi gruppi, verticali e serrati come fasci di lancie titaniche, di cui la punta toccasse le nubi; una grandezza superba, un disordine prodigioso di forme colossali, lo spettacolo più maestosamente terribile che gli avesse mai offerto la natura vegetale. A momenti lo prendeva un grande stupore. Ma subito l'anima sua si rilanciava verso sua madre. Ed era sfinito, coi piedi che facevan sangue, solo in mezzo a quella formidabile foresta, dove non vedeva che a lunghi intervalli delle piccole abitazioni umane, che ai piedi di quegli alberi parevan nidi di formiche, e qualche bufalo addormentato lungo la via; era sfinito, ma non sentiva la stanchezza; era solo, e non aveva paura. La grandezza della foresta ingrandiva l'anima sua; la vicinanza di sua madre gli dava la forza e la baldanza d'un uomo; la ricordanza dell'oceano, degli sgomenti, dei dolori sofferti e vinti, delle fatiche durate, della ferrea costanza spiegata, gli facea, alzare la fronte; tutto il suo forte e nobile sangue genovese gli rifluiva al cuore in un'onda ardente d'alterezza e d'audacia. E una cosa nuova seguiva in lui: che mentre fino allora aveva portata nella mente un'immagine della madre oscurata e sbiadita un poco da quei due anni di lontananza, in quei momenti quell'immagine gli si chiariva; egli rivedeva il suo viso intero e netto come da lungo tempo non l'aveva visto più; lo rivedeva vicino, illuminato, parlante; rivedeva i movimenti più sfuggevoli dei suoi occhi e delle sue labbra, tutti i suoi atteggiamenti, tutti i suoi gesti, tutte le ombre dei suoi pensieri; e sospinto da quei ricordi incalzanti, affrettava il passo; e un nuovo affetto, una tenerezza indicibile gli cresceva, gli cresceva nel cuore, facendogli correre giù pel viso delle lacrime dolci e quiete; e andando avanti nelle tenebre, le parlava, le diceva le parole che le avrebbe mormorate all'orecchio tra poco: - Son qui, madre mia, eccomi qui, non ti lascerò mai più; torneremo a casa insieme, e io ti starò sempre accanto sul bastimento, stretto a te, e nessuno mi staccherà mai più da te, nessuno, mai più, fin che avrai vita! - E non s'accorgeva intanto che sulle cime degli alberi giganteschi andava morendo la luce argentina della luna nella bianchezza delicata dell'alba. Alle otto di quella mattina il medico di Tucuman, - un giovane argentino - era già al letto della malata, in compagnia d'un assistente, a tentare per l'ultima volta di persuaderla a lasciarsi operare; e con lui ripetevano le più calde istanze l'ingegnere Mequinez e la sua signora. Ma tutto era inutile. La donna, sentendosi esausta di forze, non aveva più fede nell'operazione; essa era certissima o di morire sull'atto o di non sopravvivere che poche ore, dopo d'aver sofferto invano dei dolori più atroci di quelli che la dovevano uccidere naturalmente. Il medico badava a ridirle: - Ma l'operazione è sicura, ma la vostra salvezza è certa, purché ci mettiate un po' di coraggio! Ed è egualmente certa la vostra morte se vi rifiutate! - Eran parole buttate via. - No, - essa rispondeva, con la voce fioca, - ho ancora coraggio per morire; ma non ne ho più per soffrire inutilmente. Grazie, signor dottore. È destinato così. Mi lasci morir tranquilla. - Il medico, scoraggiato, desistette. Nessuno parlò più. Allora la donna voltò il viso verso la padrona, e le fece con voce di moribonda le sue ultime preghiere. - Cara, buona signora, - disse a gran fatica, singhiozzando, - lei manderà quei pochi denari e le mie povere robe alla mia famiglia... per mezzo del signor Console. Io spero che sian tutti vivi. Il cuore mi predice bene in questi ultimi momenti. Mi farà la grazia di scrivere... che ho sempre pensato a loro, che ho sempre lavorato per loro... per i miei figliuoli... e che il mio solo dolore fu di non rivederli più... ma che son morta con coraggio... rassegnata... benedicendoli; e che raccomando a mio marito... e al mio figliuolo maggiore... il più piccolo, il mio povero Marco... che l'ho avuto in cuore fino all'ultimo momento... - Ed esaltandosi tutt'a un tratto, gridò giungendo le mani: - Il mio Marco! Il mio bambino! La vita mia!... - Ma girando gli occhi pieni di pianto, vide che la padrona non c'era più: eran venuti a chiamarla furtivamente. Cercò il padrone: era sparito. Non restavan più che le due infermiere e l'assistente. Si sentiva nella stanza vicina un rumore affrettato di passi, un mormorio di voci rapide e sommesse, e d'esclamazioni rattenute. La malata fissò sull'uscio gli occhi velati, aspettando. Dopo alcuni minuti vide comparire il medico, con un viso insolito; poi la padrona e il padrone, anch'essi col viso alterato. Tutti e tre la guardarono con un'espressione singolare, e si scambiarono alcune parole a bassa voce. Le parve che il medico dicesse alla signora: - Meglio subito. - La malata non capiva. - Josefa, - le disse la padrona con la voce tremante. - Ho una buona notizia da darvi. Preparate il cuore a una buona notizia. La donna la guardò attentamente. - Una notizia, - continuò la signora, sempre più agitata, - che vi darà una grande gioia. La malata dilatò gli occhi. - Preparatevi, - proseguì la padrona, - a vedere una persona... a cui volete molto bene. La donna alzò il capo con un scatto vigoroso, e cominciò a guardare rapidamente ora la signora ora l'uscio, con gli occhi sfolgoranti. - Una persona, - soggiunse la signora, impallidendo, - arrivata or ora... inaspettatamente. - Chi è? - gridò la donna con una voce strozzata e strana, come di persona spaventata. Un istante dopo gittò un grido altissimo, balzando a sedere sul letto, e rimase immobile, con gli occhi spalancati e con le mani alle tempie, come davanti a un'apparizione sovrumana. Marco, lacero e polveroso, era là ritto sulla soglia, trattenuto per un braccio dal dottore. La donna urlò tre volte: - Dio! Dio! Dio mio! Marco si slanciò avanti, essa protese le braccia scarne, e serrandolo al seno con la forza d'una tigre, scoppiò in un riso violento, rotto da profondi singhiozzi senza lagrime, che la fecero ricader soffocata sul cuscino. Ma si riprese subito e gridò pazza di gioia, tempestandogli il capo di baci: - Come sei qui? Perché? Sei tu? Come sei cresciuto! Chi t'ha condotto? Sei solo? Non sei malato? Sei tu, Marco! Non è un sogno! Dio mio! Parlami! - Poi cambiando tono improvvisamente: - No! Taci! Aspetta! - E voltandosi verso il medico, a precipizio: - Presto, subito, dottore. Voglio guarire. Son pronta. Non perda un momento. Conducete via Marco che non senta. Marco mio, non è nulla. Mi racconterai. Ancora un bacio. Va. Eccomi qui, dottore. Marco fu portato via. I padroni e le donne uscirono in fretta; rimasero il chirurgo e l'assistente, che chiusero la porta. Il signor Mequinez tentò di tirar Marco in una stanza lontana; ma fu impossibile; egli parea inchiodato al pavimento. - Cosa c'è? - domandò. - Cos'ha mia madre? Cosa le fanno? E allora il Mequinez, piano, tentando sempre di condurlo via: - Ecco. Senti. Ora ti dirò. Tua madre è malata, bisogna farle una piccola operazione, ti spiegherò tutto, vieni con me. - No, - rispose il ragazzo, impuntandosi, - voglio star qui. Mi spieghi qui. L'ingegnere ammontava parole su parole, tirandolo: il ragazzo cominciava a spaventarsi e a tremare. A un tratto un grido acutissimo, come il grido d'un ferito a morte, risonò in tutta la casa. Il ragazzo rispose con un altro grido disperato: - Mia madre è morta! Il medico comparve sull'uscio e disse: - Tua madre è salva. Il ragazzo lo guardò un momento e poi si gettò ai suoi piedi singhiozzando: - Grazie dottore! Ma il dottore lo rialzò d'un gesto, dicendo: - Levati!... Sei tu, eroico fanciullo, che hai salvato tua madre.

Il giorno dopo, di buon mattino, con la sua sacca sulle spalle, curvo e zoppicante, ma pieno d'animo, Marco entrava nella città di Tucuman, una delle più giovani e delle più floride città della Repubblica Argentina. Gli parve di rivedere Cordova, Rosario, Buenos Aires: erano quelle stesse vie diritte e lunghissime, e quelle case basse e bianche; ma da ogni parte una vegetazione nuova e magnifica, un'aria profumata, una luce meravigliosa, un cielo limpido e profondo, come egli non l'aveva mai visto, neppure in Italia. Andando innanzi per le vie, riprovò l'agitazione febbrile che lo aveva preso a Buenos Aires; guardava le finestre e le porte di tutte le case; guardava tutte le donne che passavano, con una speranza affannosa di incontrar sua madre; avrebbe voluto interrogar tutti, e non osava fermar nessuno. Tutti di sugli usci, si voltavano a guardar quel povero ragazzo stracciato e polveroso, che mostrava di venir di tanto lontano. Ed egli cercava fra la gente un viso che gl'ispirasse fiducia, per rivolgergli quella tremenda domanda, quando gli caddero gli occhi sopra un insegna di bottega, su cui era scritto un nome italiano. C'era dentro un uomo con gli occhiali e due donne. Egli s'avvicinò lentamente alla porta, e fatto un animo risoluto, domandò: - Mi saprebbe dire, signore, dove sta la famiglia Mequinez?
- Dell'ingeniero Mequinez? - domandò il bottegaio alla sua volta.
- Dell'ingegnere Mequinez, - rispose il ragazzo, con un fil di voce.
- La famiglia Mequinez, - disse il bottegaio, - non è a Tucuman.
Un grido di disperato dolore, come d'una persona pugnalata, fece eco a quelle parole.
Il bottegaio e le donne s'alzarono, alcuni vicini accorsero. - Che c'è? che hai, ragazzo? - disse il bottegaio, tirandolo nella bottega e facendolo sedere; - non c'è da disperarsi, che diavolo! I Mequinez non sono qui, ma poco lontano, a poche ore da Tucuman!
- Dove? dove? - gridò Marco, saltando su come un resuscitato.
- A una quindicina di miglia di qua, - continuò l'uomo, - in riva al Saladillo, in un luogo dove stanno costruendo una grande fabbrica da zucchero, un gruppo di case, c'è la casa del signor Mequinez, tutti lo sanno, ci arriverai in poche ore.
- Ci son stato io un mese fa, - disse un giovane che era accorso al grido.
Marco lo guardò con gli occhi grandi e gli domandò precipitosamente, impallidendo: - Avete visto la donna di servizio del signor Mequinez, l'italiana?
- La jenovesa? L'ho vista.
Marco ruppe in un singhiozzo convulso, tra di riso e di pianto. Poi con un impeto di risoluzione violenta: - Dove si passa, presto, la strada, parto subito, insegnatemi la strada!
- Ma c'è una giornata di marcia, - gli dissero tutti insieme, - sei stanco, devi riposare, partirai domattina.
- Impossibile! Impossibile! - rispose il ragazzo. - Ditemi dove si passa, non aspetto più un momento, parto subito, dovessi morire per via!
Vistolo irremovibile, non s'opposero più. - Dio t'accompagni, - gli dissero. - Bada alla via per la foresta. - Buon viaggio, italianito. - Un uomo l'accompagnò fuori di città, gli indicò il cammino, gli diede qualche consiglio e stette a vederlo partire. In capo a pochi minuti, il ragazzo scomparve, zoppicando, con la sua sacca sulle spalle, dietro agli alberi folti che fiancheggiavan la strada.

Quella notte fu tremenda per la povera inferma. Essa aveva dei dolori atroci che le strappavan degli urli da rompersi le vene, e le davan dei momenti di delirio. Le donne che l'assistevano, perdevan la testa. La padrona accorreva di tratto in tratto, sgomentata. Tutti cominciarono a temere che, se anche si fosse decisa a lasciarsi operare, il medico che doveva venire la mattina dopo, sarebbe arrivato troppo tardi. Nei momenti che non delirava, però, si capiva che il suo più terribile strazio non erano i dolori del corpo, ma il pensiero della famiglia lontana. Smorta, disfatta, col viso mutato, si cacciava le mani nei capelli con un atto di disperazione che passava l'anima, e gridava: - Dio mio! Dio mio! Morire tanto lontana, morire senza rivederli! I miei poveri figliuoli, che rimangono senza madre, le mie creature, il povero sangue mio! Il mio Marco, che è ancora così piccolo, alto così, tanto buono e affettuoso! Voi non sapete che ragazzo era! Signora, se sapesse! Non me lo potevo staccare dal collo quando son partita, singhiozzava da far compassione, singhiozzava; pareva che lo sapesse che non avrebbe mai più rivisto sua madre, povero Marco, povero bambino mio! Credevo che mi scoppiasse il cuore! Ah se fossi morta allora, morta mentre mi diceva addio! morta fulminata fossi! Senza madre, povero bambino, lui che m'amava tanto, che aveva tanto bisogno di me, senza madre, nella miseria, dovrà andare accattando, lui, Marco, Marco mio, che tenderà la mano, affamato! Oh! Dio eterno! No! Non voglio morire! Il medico! Chiamatelo subito! Venga, mi tagli, mi squarci il seno, mi faccia impazzire, ma mi salvi la vita! Voglio guarire, voglio vivere, partire, fuggire, domani, subito! Il medico! Aiuto! Aiuto! - E le donne le afferavan le mani, la palpavano, pregando, la facevano tornare in sé a poco a poco, e le parlavan di Dio e di speranza. E allora essa ricadeva in un abbattimento mortale, piangeva, con le mani nei capelli grigi, gemeva come una bambina, mettendo un lamento prolungato, e mormorando di tratto in tratto: - Oh la mia Genova! La mia casa! Tutto quel mare!... Oh Marco mio, il mio povero Marco! Dove sarà ora, la povera creatura mia!

Era mezzanotte; e il suo povero Marco, dopo aver passato molte ore sulla sponda d'un fosso, stremato di forze, camminava allora attraverso a una foresta vastissima di alberi giganteschi, mostri della vegetazione, dai fusti smisurati, simili a pilastri di cattedrali, che intrecciavano a un'altezza meravigliosa le loro enormi chiome inargentate dalla luna. Vagamente, in quella mezza oscurità, egli vedeva miriadi di tronchi di tutte le forme, ritti, inclinati, scontorti, incrociati in atteggiamenti strani di minaccia e di lotta; alcuni rovesciati a terra, come torri cadute tutte d'un pezzo, e coperti d'una vegetazione fitta e confusa, che pareva una folla furente che se li disputasse a palmo a palmo; altri raccolti in grandi gruppi, verticali e serrati come fasci di lancie titaniche, di cui la punta toccasse le nubi; una grandezza superba, un disordine prodigioso di forme colossali, lo spettacolo più maestosamente terribile che gli avesse mai offerto la natura vegetale. A momenti lo prendeva un grande stupore. Ma subito l'anima sua si rilanciava verso sua madre. Ed era sfinito, coi piedi che facevan sangue, solo in mezzo a quella formidabile foresta, dove non vedeva che a lunghi intervalli delle piccole abitazioni umane, che ai piedi di quegli alberi parevan nidi di formiche, e qualche bufalo addormentato lungo la via; era sfinito, ma non sentiva la stanchezza; era solo, e non aveva paura. La grandezza della foresta ingrandiva l'anima sua; la vicinanza di sua madre gli dava la forza e la baldanza d'un uomo; la ricordanza dell'oceano, degli sgomenti, dei dolori sofferti e vinti, delle fatiche durate, della ferrea costanza spiegata, gli facea, alzare la fronte; tutto il suo forte e nobile sangue genovese gli rifluiva al cuore in un'onda ardente d'alterezza e d'audacia. E una cosa nuova seguiva in lui: che mentre fino allora aveva portata nella mente un'immagine della madre oscurata e sbiadita un poco da quei due anni di lontananza, in quei momenti quell'immagine gli si chiariva; egli rivedeva il suo viso intero e netto come da lungo tempo non l'aveva visto più; lo rivedeva vicino, illuminato, parlante; rivedeva i movimenti più sfuggevoli dei suoi occhi e delle sue labbra, tutti i suoi atteggiamenti, tutti i suoi gesti, tutte le ombre dei suoi pensieri; e sospinto da quei ricordi incalzanti, affrettava il passo; e un nuovo affetto, una tenerezza indicibile gli cresceva, gli cresceva nel cuore, facendogli correre giù pel viso delle lacrime dolci e quiete; e andando avanti nelle tenebre, le parlava, le diceva le parole che le avrebbe mormorate all'orecchio tra poco: - Son qui, madre mia, eccomi qui, non ti lascerò mai più; torneremo a casa insieme, e io ti starò sempre accanto sul bastimento, stretto a te, e nessuno mi staccherà mai più da te, nessuno, mai più, fin che avrai vita! - E non s'accorgeva intanto che sulle cime degli alberi giganteschi andava morendo la luce argentina della luna nella bianchezza delicata dell'alba.

Alle otto di quella mattina il medico di Tucuman, - un giovane argentino - era già al letto della malata, in compagnia d'un assistente, a tentare per l'ultima volta di persuaderla a lasciarsi operare; e con lui ripetevano le più calde istanze l'ingegnere Mequinez e la sua signora. Ma tutto era inutile. La donna, sentendosi esausta di forze, non aveva più fede nell'operazione; essa era certissima o di morire sull'atto o di non sopravvivere che poche ore, dopo d'aver sofferto invano dei dolori più atroci di quelli che la dovevano uccidere naturalmente. Il medico badava a ridirle: - Ma l'operazione è sicura, ma la vostra salvezza è certa, purché ci mettiate un po' di coraggio! Ed è egualmente certa la vostra morte se vi rifiutate! - Eran parole buttate via. - No, - essa rispondeva, con la voce fioca, - ho ancora coraggio per morire; ma non ne ho più per soffrire inutilmente. Grazie, signor dottore. È destinato così. Mi lasci morir tranquilla. - Il medico, scoraggiato, desistette. Nessuno parlò più. Allora la donna voltò il viso verso la padrona, e le fece con voce di moribonda le sue ultime preghiere. - Cara, buona signora, - disse a gran fatica, singhiozzando, - lei manderà quei pochi denari e le mie povere robe alla mia famiglia... per mezzo del signor Console. Io spero che sian tutti vivi. Il cuore mi predice bene in questi ultimi momenti. Mi farà la grazia di scrivere... che ho sempre pensato a loro, che ho sempre lavorato per loro... per i miei figliuoli... e che il mio solo dolore fu di non rivederli più... ma che son morta con coraggio... rassegnata... benedicendoli; e che raccomando a mio marito... e al mio figliuolo maggiore... il più piccolo, il mio povero Marco... che l'ho avuto in cuore fino all'ultimo momento... - Ed esaltandosi tutt'a un tratto, gridò giungendo le mani: - Il mio Marco! Il mio bambino! La vita mia!... - Ma girando gli occhi pieni di pianto, vide che la padrona non c'era più: eran venuti a chiamarla furtivamente. Cercò il padrone: era sparito. Non restavan più che le due infermiere e l'assistente. Si sentiva nella stanza vicina un rumore affrettato di passi, un mormorio di voci rapide e sommesse, e d'esclamazioni rattenute. La malata fissò sull'uscio gli occhi velati, aspettando. Dopo alcuni minuti vide comparire il medico, con un viso insolito; poi la padrona e il padrone, anch'essi col viso alterato. Tutti e tre la guardarono con un'espressione singolare, e si scambiarono alcune parole a bassa voce. Le parve che il medico dicesse alla signora: - Meglio subito. - La malata non capiva.
- Josefa, - le disse la padrona con la voce tremante. - Ho una buona notizia da darvi. Preparate il cuore a una buona notizia.
La donna la guardò attentamente.
- Una notizia, - continuò la signora, sempre più agitata, - che vi darà una grande gioia.
La malata dilatò gli occhi.
- Preparatevi, - proseguì la padrona, - a vedere una persona... a cui volete molto bene.
La donna alzò il capo con un scatto vigoroso, e cominciò a guardare rapidamente ora la signora ora l'uscio, con gli occhi sfolgoranti.
- Una persona, - soggiunse la signora, impallidendo, - arrivata or ora... inaspettatamente.
- Chi è? - gridò la donna con una voce strozzata e strana, come di persona spaventata.
Un istante dopo gittò un grido altissimo, balzando a sedere sul letto, e rimase immobile, con gli occhi spalancati e con le mani alle tempie, come davanti a un'apparizione sovrumana.
Marco, lacero e polveroso, era là ritto sulla soglia, trattenuto per un braccio dal dottore.
La donna urlò tre volte: - Dio! Dio! Dio mio!
Marco si slanciò avanti, essa protese le braccia scarne, e serrandolo al seno con la forza d'una tigre, scoppiò in un riso violento, rotto da profondi singhiozzi senza lagrime, che la fecero ricader soffocata sul cuscino.
Ma si riprese subito e gridò pazza di gioia, tempestandogli il capo di baci: - Come sei qui? Perché? Sei tu? Come sei cresciuto! Chi t'ha condotto? Sei solo? Non sei malato? Sei tu, Marco! Non è un sogno! Dio mio! Parlami! - Poi cambiando tono improvvisamente: - No! Taci! Aspetta! - E voltandosi verso il medico, a precipizio: - Presto, subito, dottore. Voglio guarire. Son pronta. Non perda un momento. Conducete via Marco che non senta. Marco mio, non è nulla. Mi racconterai. Ancora un bacio. Va. Eccomi qui, dottore.
Marco fu portato via. I padroni e le donne uscirono in fretta; rimasero il chirurgo e l'assistente, che chiusero la porta.
Il signor Mequinez tentò di tirar Marco in una stanza lontana; ma fu impossibile; egli parea inchiodato al pavimento.
- Cosa c'è? - domandò. - Cos'ha mia madre? Cosa le fanno?
E allora il Mequinez, piano, tentando sempre di condurlo via: - Ecco. Senti. Ora ti dirò. Tua madre è malata, bisogna farle una piccola operazione, ti spiegherò tutto, vieni con me.
- No, - rispose il ragazzo, impuntandosi, - voglio star qui. Mi spieghi qui.
L'ingegnere ammontava parole su parole, tirandolo: il ragazzo cominciava a spaventarsi e a tremare.
A un tratto un grido acutissimo, come il grido d'un ferito a morte, risonò in tutta la casa.
Il ragazzo rispose con un altro grido disperato: - Mia madre è morta!
Il medico comparve sull'uscio e disse: - Tua madre è salva.
Il ragazzo lo guardò un momento e poi si gettò ai suoi piedi singhiozzando: - Grazie dottore!
Ma il dottore lo rialzò d'un gesto, dicendo: - Levati!... Sei tu, eroico fanciullo, che hai salvato tua madre.