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L’AMICA GENIALE - Elena Ferrante, L’AMICA GENIALE - Elena Ferrante (1)

L'AMICA GENIALE - Elena Ferrante (1)

Elena Ferrante

Infanzia, adolescenza

Edizioni e/o

Via Camozzi, 1

00195 Roma

info@edizionieo.it

www.edizionieo.it

I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera e i nomi e i dialoghi ivi contenuti sono unicamente frutto dell'immaginazione e della libera espressione artistica dell'autrice. Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.

Copyright © 2011 by Edizioni e/o

Grafica/Emanuele Ragnisco

www.mekkanografici.com

Foto in copertina © Anthony Boccaccio/Getty Images

ISBN 9788866320951

IL SIGNORE: Ma sì, fatti vedere quando vuoi; non ho mai odiato i tuoi simili, di tutti gli spiriti che dicono di no, il Beffardo è quello che mi dà meno fastidio. L'agire dell'uomo si sgonfia fin troppo facilmente, egli presto si invaghisce del riposo assoluto. Perciò gli do volentieri un compagno che lo pungoli e che sia tenuto a fare la parte del diavolo.

J.W. GOETHE, Faust

INDICE DEI PERSONAGGI

La famiglia Cerullo (la famiglia dello scarparo):

Fernando Cerullo, calzolaio.

Nunzia Cerullo, madre di Lila.

Raffaella Cerullo, da tutti detta Lina, Lila solo per Elena.

Rino Cerullo, fratello maggiore di Lila, scarparo anche lui.

Rino si chiamerà anche uno dei figli di Lila.

Altri figli.

La famiglia Greco (la famiglia dell'usciere): Elena Greco, detta Lenuccia o Lenù. È la primogenita, dopo di lei Peppe, Gianni ed Elisa.

Il padre fa l'usciere al comune. La madre, casalinga.

La famiglia Carracci (la famiglia di don Achille):

Don Achille Carracci, l'orco delle favole. Maria Carracci, moglie di don Achille.

Stefano Carracci, figlio di don Achille, salumiere nella salumeria di famiglia.

Pinuccia e Alfonso Carracci, gli altri due figli di don Achille.

La famiglia Peluso (la famiglia del falegname):

Alfredo Peluso, falegname.

Giuseppina Peluso, moglie di Alfredo.

Pasquale Peluso, figlio maggiore di Alfredo e Giuseppina,

muratore.

Carmela Peluso, che si fa chiamare anche Carmen, sorella di Pasquale, commessa di merceria.

Altri figli.

La famiglia Cappuccio (la famiglia della vedova pazza):

Melina, una parente della madre di Lila, vedova pazza.

Il marito di Melina, che scaricava cassette al mercato ortofrutticolo.

Ada Cappuccio, figlia di Melina.

Antonio Cappuccio, suo fratello, meccanico.

Altri figli.

La famiglia Sarratore (la famiglia del ferroviere-poeta):

Donato Sarratore, controllore.

Lidia Sarratore, moglie di Donato.

Nino Sarratore, il più grande dei cinque figli di Donato e Lidia.

Marisa Sarratore, figlia di Donato e Lidia.

Pino, Clelia e Ciro Sarratore, i figli più piccoli di Donato e Lidia.

La famiglia Scanno (la famiglia del fruttivendolo):

Nicola Scanno, fruttivendolo.

Assunta Scanno, moglie di Nicola.

Enzo Scanno, figlio di Nicola e Assunta, anch'egli fruttivendolo. Altri figli.

La famiglia Solara (la famiglia del proprietario dell'omonimo bar-pasticceria): Silvio Solara, padrone del bar-pasticceria.

Manuela Solara, moglie di Silvio.

Marcello e Michele Solara, figli di Silvio e Manuela.

La famiglia Spagnuolo (la famiglia del pasticciere):

Il signor Spagnuolo, pasticciere del bar-pasticceria Solara.

Rosa Spagnuolo, moglie del pasticciere.

Gigliola Spagnuolo, figlia del pasticciere.

Altri figli.

Gino, il figlio del farmacista.

Gli insegnanti:

Ferraro, maestro e bibliotecario.

La Oliviero, maestra.

Gerace, professore del ginnasio.

La Galiani, professoressa del liceo.

Nella Incardo, la cugina di Ischia della maestra Oliviero.

PROLOGO

Cancellare le tracce

1.

Stamattina mi ha telefonato Rino, ho creduto che volesse ancora soldi e mi sono preparata a negarglieli. Invece il motivo della telefonata era un altro: sua madre non si trovava più.

«Da quando?».

«Da due settimane».

«E mi telefoni adesso?».

Il tono gli dev'essere sembrato ostile, anche se non ero né arrabbiata né indignata, c'era solo un filo di sarcasmo. Ha provato a ribattere ma l'ha fatto confusamente, in imbarazzo, un po' in dialetto, un po' in italiano. Ha detto che s'era convinto che la madre fosse in giro per Napoli come al solito. «Pure di notte?».

«Lo sai com'è fatta». «Lo so, ma due settimane d'assenza ti sembrano normali?». «Sì. Tu non la vedi da molto, è peggiorata: non ha mai sonno, entra, esce, fa quello che le pare».

Comunque alla fine si era preoccupato. Aveva chiesto a tutti, aveva fatto il giro degli ospedali, si era rivolto persino alla polizia. Niente, sua madre non era da nessuna parte. Che buon figlio: un uomo grosso, sui quarant'anni, mai lavorato in vita sua, solo traffici e sperperi. Mi sono immaginata con quanta cura avesse fatto le ricerche. Nessuna. Era senza cervello, e a cuore aveva soltanto se stesso.

«Non è che sta da te?» mi ha chiesto all'improvviso. La madre? Qui a Torino? Conosceva bene la situazione e parlava solo per parlare. Lui sì che era un viaggiatore, era venuto a casa mia almeno una decina di volte, senza essere invitato. Sua madre, che invece avrei accolto volentieri, non era mai uscita da Napoli in tutta la sua vita. Gli ho risposto:

«No che non sta da me».

«Sei sicura?».

«Rino, per favore: t'ho detto che non c'è». «E allora dov'è andata?». Ha cominciato a piangere e ho lasciato che mettesse in scena la sua disperazione, singhiozzi che partivano finti e continuavano veri. Quando ha finito gli ho detto:

«Per favore, una volta tanto comportati come vorrebbe lei: non la cercare».

«Ma che dici?».

«Dico quello che ho detto. È inutile. Impara a vivere da solo e non cercare più nemmeno me».

Ho riattaccato.

2.

La madre di Rino si chiama Raffaella Cerullo, ma tutti l'hanno sempre chiamata Lina. Io no, non ho mai usato né il primo nome né il secondo. Da più di sessant'anni per me è Lila. Se la chiamassi Lina o Raffaella, così, all'improvviso, penserebbe che la nostra amicizia è finita. Sono almeno tre decenni che mi dice di voler sparire senza lasciare traccia, e solo io so bene cosa vuole dire. Non ha mai avuto in mente una qualche fuga, un cambio di identità, il sogno di rifarsi una vita altrove. E non ha mai pensato al suicidio, disgustata com'è dall'idea che Rino abbia a che fare col suo corpo e sia costretto a occuparsene. Il suo proposito è stato sempre un altro: voleva volatilizzarsi; voleva disperdere ogni sua cellula; di lei non si doveva trovare più niente. E poiché la conosco bene, o almeno credo di conoscerla, do per scontato che abbia trovato il modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte.

3.

Sono passati i giorni. Ho guardato nella posta elettronica, in quella cartacea, ma senza speranza. Io ho scritto spessissimo a lei, lei non mi ha quasi mai risposto: questa è stata sempre la consuetudine. Preferiva il telefono o le lunghe notti di chiacchiere quando andavo a Napoli.

Ho aperto i miei cassetti, le scatole di metallo dove conservo cose di ogni genere. Poche. Ho buttato via tanta roba, in particolare ciò che la riguardava, e lei lo sa. Ho scoperto che non ho niente di suo, non un'immagine, non un biglietto, non un regalino. Mi sono sorpresa io stessa. Possibile che in tutti questi anni non mi abbia lasciato niente di sé, o, peggio, io non abbia voluto conservare alcunché di lei? Possibile.

Ho telefonato io a Rino, questa volta, l'ho fatto a malincuore. Non rispondeva né sul fisso né sul cellulare. Mi ha chiamato lui in serata, con comodo. Aveva la voce con cui cerca di stimolare un senso di pena.

«Ho visto che hai chiamato. Hai notizie?».

«No. E tu?».

«Nessuna».

M'ha detto cose sconclusionate. Voleva andare in tv, alla trasmissione che si occupa delle persone scomparse, fare un appello, chiedere perdono per tutto a sua mamma, supplicarla di tornare.

Sono stata a sentire pazientemente, poi gli ho chiesto:

«Hai guardato nel suo armadio?».

«Per fare che?».

Naturalmente non gli era mai venuta in mente la cosa più ovvia.

«Va' a guardare». C'è andato e si è reso conto che non c'era niente, nemmeno uno dei vestiti di sua madre, né estivi né invernali, solo vecchie grucce. L'ho mandato in giro a frugare per casa. Sparite le scarpe. Spariti i pochi libri. Sparite tutte le foto. Spariti i filmini. Sparito il suo computer, anche i vecchi dischetti che si usavano una volta, tutto, ogni cosa della sua esperienza di strega elettronica che aveva cominciato a destreggiarsi coi calcolatori già sul finire degli anni Sessanta, all'epoca delle schede perforate. Rino era stupefatto. Gli ho detto:

«Prenditi il tempo che vuoi ma poi telefonami e dimmi se hai trovato anche solo uno spillo che le appartiene».

Mi ha chiamato il giorno dopo, era agitatissimo.

«Non c'è niente». «Niente niente?».

«No. S'è tagliata via da tutte le foto in cui stavamo insieme, anche quelle di quando ero piccolo». «Hai guardato bene?».

«Dappertutto».

«Anche nello scantinato?».

«T'ho detto dappertutto. È sparita persino la scatola con i documenti: che so, vecchi certificati di nascita, contratti telefonici, ricevute di bollette. Che significa? Qualcuno ha rubato tutto? Cosa cercano? Che vogliono da mia madre e da me?».

L'ho rassicurato, gli ho detto di stare tranquillo. Soprattutto da lui, era improbabile che qualcuno volesse qualcosa.

«Posso venire a stare un po' a casa tua?». «No».

«Per favore, non riesco a dormire».

«Arrangiati, Rino, non so che farci».

Ho riattaccato e quando lui ha ritelefonato non ho risposto. Mi sono seduta alla scrivania.

Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato.

Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso, a sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alle spalle.

Mi sono sentita molto arrabbiata.

Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente.

INFANZIA

Storia di don Achille

1.

La volta che Lila e io decidemmo di salire per le scale buie che portavano, gradino dietro gradino, rampa dietro rampa, fino alla porta dell'appartamento di don Achille, cominciò la nostra amicizia. Mi ricordo la luce violacea del cortile, gli odori di una serata tiepida di primavera. Le mamme stavano preparando la cena, era ora di rientrare, ma noi ci attardavamo sottoponendoci per sfida, senza mai rivolgerci la parola, a prove di coraggio. Da qualche tempo, dentro e fuori scuola, non facevamo che quello. Lila infilava la mano e tutto il braccio nella bocca nera di un tombino, e io lo facevo subito dopo a mia volta, col batticuore, sperando che gli scarafaggi non mi corressero su per la pelle e i topi non mi mordessero. Lila s'arrampicava fino alla finestra a pianterreno della signora Spagnuolo, s'appendeva alla sbarra di ferro dove passava il filo per stendere i panni, si dondolava, quindi si lasciava andare giù sul marciapiede, e io lo facevo subito dopo a mia volta, pur temendo di cadere e farmi male. Lila s'infilava sotto pelle la rugginosa spilla francese che aveva trovato per strada non so quando ma che conservava in tasca come il regalo di una fata; e io osservavo la punta di metallo che le scavava un tunnel biancastro nel palmo, e poi, quando lei l'estraeva e me la tendeva, facevo lo stesso. A un certo punto mi lanciò uno sguardo dei suoi, fermo, con gli occhi stretti, e si diresse verso la palazzina dove abitava don Achille. Mi gelai di paura. Don Achille era l'orco delle favole, avevo il divieto assoluto di avvicinarlo, parlargli, guardarlo, spiarlo, bisognava fare come se non esistessero né lui né la sua famiglia. C'erano nei suoi confronti, in casa mia ma non solo, un timore e un odio che non sapevo da dove nascessero. Mio padre ne parlava in un modo che me l'ero immaginato grosso, pieno di bolle violacee, furioso malgrado il “don”, che a me suggeriva un'autorità calma. Era un essere fatto di non so quale materiale, ferro, vetro, ortica, ma vivo, vivo col respiro caldissimo che gli usciva dal naso e dalla bocca. Credevo che se solo l'avessi visto da lontano mi avrebbe cacciato negli occhi qualcosa di acuminato e bruciante. Se poi avessi fatto la pazzia di avvicinarmi alla porta di casa sua mi avrebbe uccisa.

Aspettai un po' per vedere se Lila ci ripensava e tornava indietro. Sapevo cosa voleva fare, avevo inutilmente sperato che se ne dimenticasse, e invece no. I lampioni non si erano ancora accesi e nemmeno le luci delle scale. Dalle case arrivavano voci nervose. Per seguirla dovevo lasciare l'azzurrognolo del cortile ed entrare nel nero del portone. Quando finalmente mi decisi, all'inizio non vidi niente, sentii solo un odore di roba vecchia e DDT. Poi mi abituai allo scuro e scoprii Lila seduta sul primo gradino della prima rampa. Si alzò e cominciammo a salire.

Avanzammo tenendoci dal lato della parete, lei due gradini avanti, io due gradini indietro e combattuta tra accorciare la distanza o lasciare che aumentasse. M'è rimasta l'impressione della spalla che strisciava contro il muro scrostato e l'idea che gli scalini fossero molto alti, più di quelli della palazzina dove abitavo.

L’AMICA GENIALE - Elena Ferrante (1) MY BRILLIANT FRIEND - Elena Ferrante (1)

Elena Ferrante

Infanzia, adolescenza

Edizioni e/o

Via Camozzi, 1

00195 Roma

info@edizionieo.it

www.edizionieo.it

I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera e i nomi e i dialoghi ivi contenuti sono unicamente frutto dell'immaginazione e della libera espressione artistica dell'autrice. Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.

Copyright © 2011 by Edizioni e/o

Grafica/Emanuele Ragnisco

www.mekkanografici.com

Foto in copertina © Anthony Boccaccio/Getty Images

ISBN 9788866320951

IL SIGNORE: Ma sì, fatti vedere quando vuoi; non ho mai odiato i tuoi simili, di tutti gli spiriti che dicono di no, il Beffardo è quello che mi dà meno fastidio. L'agire dell'uomo si sgonfia fin troppo facilmente, egli presto si invaghisce del riposo assoluto. Perciò gli do volentieri un compagno che lo pungoli e che sia tenuto a fare la parte del diavolo.

J.W. GOETHE, Faust

INDICE DEI PERSONAGGI

La famiglia Cerullo (la famiglia dello scarparo):

Fernando Cerullo, calzolaio.

Nunzia Cerullo, madre di Lila.

Raffaella Cerullo, da tutti detta Lina, Lila solo per Elena.

Rino Cerullo, fratello maggiore di Lila, scarparo anche lui.

Rino si chiamerà anche uno dei figli di Lila.

Altri figli.

La famiglia Greco (la famiglia dell'usciere): Elena Greco, detta Lenuccia o Lenù. È la primogenita, dopo di lei Peppe, Gianni ed Elisa.

Il padre fa l'usciere al comune. La madre, casalinga.

La famiglia Carracci (la famiglia di don Achille):

Don Achille Carracci, l'orco delle favole. Maria Carracci, moglie di don Achille.

Stefano Carracci, figlio di don Achille, salumiere nella salumeria di famiglia.

Pinuccia e Alfonso Carracci, gli altri due figli di don Achille.

La famiglia Peluso (la famiglia del falegname):

Alfredo Peluso, falegname.

Giuseppina Peluso, moglie di Alfredo.

Pasquale Peluso, figlio maggiore di Alfredo e Giuseppina,

muratore.

Carmela Peluso, che si fa chiamare anche Carmen, sorella di Pasquale, commessa di merceria.

Altri figli.

La famiglia Cappuccio (la famiglia della vedova pazza):

Melina, una parente della madre di Lila, vedova pazza.

Il marito di Melina, che scaricava cassette al mercato ortofrutticolo.

Ada Cappuccio, figlia di Melina.

Antonio Cappuccio, suo fratello, meccanico.

Altri figli.

La famiglia Sarratore (la famiglia del ferroviere-poeta):

Donato Sarratore, controllore.

Lidia Sarratore, moglie di Donato.

Nino Sarratore, il più grande dei cinque figli di Donato e Lidia.

Marisa Sarratore, figlia di Donato e Lidia.

Pino, Clelia e Ciro Sarratore, i figli più piccoli di Donato e Lidia.

La famiglia Scanno (la famiglia del fruttivendolo):

Nicola Scanno, fruttivendolo.

Assunta Scanno, moglie di Nicola.

Enzo Scanno, figlio di Nicola e Assunta, anch'egli fruttivendolo. Altri figli.

La famiglia Solara (la famiglia del proprietario dell'omonimo bar-pasticceria): Silvio Solara, padrone del bar-pasticceria.

Manuela Solara, moglie di Silvio.

Marcello e Michele Solara, figli di Silvio e Manuela.

La famiglia Spagnuolo (la famiglia del pasticciere):

Il signor Spagnuolo, pasticciere del bar-pasticceria Solara.

Rosa Spagnuolo, moglie del pasticciere.

Gigliola Spagnuolo, figlia del pasticciere.

Altri figli.

Gino, il figlio del farmacista.

Gli insegnanti:

Ferraro, maestro e bibliotecario.

La Oliviero, maestra.

Gerace, professore del ginnasio.

La Galiani, professoressa del liceo.

Nella Incardo, la cugina di Ischia della maestra Oliviero.

PROLOGO

Cancellare le tracce

1.

Stamattina mi ha telefonato Rino, ho creduto che volesse ancora soldi e mi sono preparata a negarglieli. Invece il motivo della telefonata era un altro: sua madre non si trovava più.

«Da quando?».

«Da due settimane».

«E mi telefoni adesso?».

Il tono gli dev'essere sembrato ostile, anche se non ero né arrabbiata né indignata, c'era solo un filo di sarcasmo. Ha provato a ribattere ma l'ha fatto confusamente, in imbarazzo, un po' in dialetto, un po' in italiano. Ha detto che s'era convinto che la madre fosse in giro per Napoli come al solito. «Pure di notte?».

«Lo sai com'è fatta». «Lo so, ma due settimane d'assenza ti sembrano normali?». «Sì. Tu non la vedi da molto, è peggiorata: non ha mai sonno, entra, esce, fa quello che le pare».

Comunque alla fine si era preoccupato. Aveva chiesto a tutti, aveva fatto il giro degli ospedali, si era rivolto persino alla polizia. Niente, sua madre non era da nessuna parte. Che buon figlio: un uomo grosso, sui quarant'anni, mai lavorato in vita sua, solo traffici e sperperi. Mi sono immaginata con quanta cura avesse fatto le ricerche. Nessuna. Era senza cervello, e a cuore aveva soltanto se stesso.

«Non è che sta da te?» mi ha chiesto all'improvviso. La madre? Qui a Torino? Conosceva bene la situazione e parlava solo per parlare. Lui sì che era un viaggiatore, era venuto a casa mia almeno una decina di volte, senza essere invitato. Sua madre, che invece avrei accolto volentieri, non era mai uscita da Napoli in tutta la sua vita. Gli ho risposto:

«No che non sta da me».

«Sei sicura?».

«Rino, per favore: t'ho detto che non c'è». «E allora dov'è andata?». Ha cominciato a piangere e ho lasciato che mettesse in scena la sua disperazione, singhiozzi che partivano finti e continuavano veri. Quando ha finito gli ho detto:

«Per favore, una volta tanto comportati come vorrebbe lei: non la cercare».

«Ma che dici?».

«Dico quello che ho detto. È inutile. Impara a vivere da solo e non cercare più nemmeno me».

Ho riattaccato.

2.

La madre di Rino si chiama Raffaella Cerullo, ma tutti l'hanno sempre chiamata Lina. Io no, non ho mai usato né il primo nome né il secondo. Da più di sessant'anni per me è Lila. Se la chiamassi Lina o Raffaella, così, all'improvviso, penserebbe che la nostra amicizia è finita. Sono almeno tre decenni che mi dice di voler sparire senza lasciare traccia, e solo io so bene cosa vuole dire. Non ha mai avuto in mente una qualche fuga, un cambio di identità, il sogno di rifarsi una vita altrove. E non ha mai pensato al suicidio, disgustata com'è dall'idea che Rino abbia a che fare col suo corpo e sia costretto a occuparsene. Il suo proposito è stato sempre un altro: voleva volatilizzarsi; voleva disperdere ogni sua cellula; di lei non si doveva trovare più niente. E poiché la conosco bene, o almeno credo di conoscerla, do per scontato che abbia trovato il modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte.

3.

Sono passati i giorni. Ho guardato nella posta elettronica, in quella cartacea, ma senza speranza. Io ho scritto spessissimo a lei, lei non mi ha quasi mai risposto: questa è stata sempre la consuetudine. Preferiva il telefono o le lunghe notti di chiacchiere quando andavo a Napoli.

Ho aperto i miei cassetti, le scatole di metallo dove conservo cose di ogni genere. Poche. Ho buttato via tanta roba, in particolare ciò che la riguardava, e lei lo sa. Ho scoperto che non ho niente di suo, non un'immagine, non un biglietto, non un regalino. Mi sono sorpresa io stessa. Possibile che in tutti questi anni non mi abbia lasciato niente di sé, o, peggio, io non abbia voluto conservare alcunché di lei? Possibile.

Ho telefonato io a Rino, questa volta, l'ho fatto a malincuore. Non rispondeva né sul fisso né sul cellulare. Mi ha chiamato lui in serata, con comodo. Aveva la voce con cui cerca di stimolare un senso di pena.

«Ho visto che hai chiamato. Hai notizie?».

«No. E tu?».

«Nessuna».

M'ha detto cose sconclusionate. Voleva andare in tv, alla trasmissione che si occupa delle persone scomparse, fare un appello, chiedere perdono per tutto a sua mamma, supplicarla di tornare.

Sono stata a sentire pazientemente, poi gli ho chiesto:

«Hai guardato nel suo armadio?».

«Per fare che?».

Naturalmente non gli era mai venuta in mente la cosa più ovvia.

«Va' a guardare». C'è andato e si è reso conto che non c'era niente, nemmeno uno dei vestiti di sua madre, né estivi né invernali, solo vecchie grucce. L'ho mandato in giro a frugare per casa. Sparite le scarpe. Spariti i pochi libri. Sparite tutte le foto. Spariti i filmini. Sparito il suo computer, anche i vecchi dischetti che si usavano una volta, tutto, ogni cosa della sua esperienza di strega elettronica che aveva cominciato a destreggiarsi coi calcolatori già sul finire degli anni Sessanta, all'epoca delle schede perforate. Rino era stupefatto. Gli ho detto:

«Prenditi il tempo che vuoi ma poi telefonami e dimmi se hai trovato anche solo uno spillo che le appartiene».

Mi ha chiamato il giorno dopo, era agitatissimo.

«Non c'è niente». «Niente niente?».

«No. S'è tagliata via da tutte le foto in cui stavamo insieme, anche quelle di quando ero piccolo». «Hai guardato bene?».

«Dappertutto».

«Anche nello scantinato?».

«T'ho detto dappertutto. È sparita persino la scatola con i documenti: che so, vecchi certificati di nascita, contratti telefonici, ricevute di bollette. Che significa? Qualcuno ha rubato tutto? Cosa cercano? Che vogliono da mia madre e da me?».

L'ho rassicurato, gli ho detto di stare tranquillo. Soprattutto da lui, era improbabile che qualcuno volesse qualcosa.

«Posso venire a stare un po' a casa tua?». «No».

«Per favore, non riesco a dormire».

«Arrangiati, Rino, non so che farci».

Ho riattaccato e quando lui ha ritelefonato non ho risposto. Mi sono seduta alla scrivania.

Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato.

Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso, a sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alle spalle.

Mi sono sentita molto arrabbiata.

Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente.

INFANZIA

Storia di don Achille

1.

La volta che Lila e io decidemmo di salire per le scale buie che portavano, gradino dietro gradino, rampa dietro rampa, fino alla porta dell'appartamento di don Achille, cominciò la nostra amicizia. Mi ricordo la luce violacea del cortile, gli odori di una serata tiepida di primavera. Le mamme stavano preparando la cena, era ora di rientrare, ma noi ci attardavamo sottoponendoci per sfida, senza mai rivolgerci la parola, a prove di coraggio. Da qualche tempo, dentro e fuori scuola, non facevamo che quello. Lila infilava la mano e tutto il braccio nella bocca nera di un tombino, e io lo facevo subito dopo a mia volta, col batticuore, sperando che gli scarafaggi non mi corressero su per la pelle e i topi non mi mordessero. Lila s'arrampicava fino alla finestra a pianterreno della signora Spagnuolo, s'appendeva alla sbarra di ferro dove passava il filo per stendere i panni, si dondolava, quindi si lasciava andare giù sul marciapiede, e io lo facevo subito dopo a mia volta, pur temendo di cadere e farmi male. Lila s'infilava sotto pelle la rugginosa spilla francese che aveva trovato per strada non so quando ma che conservava in tasca come il regalo di una fata; e io osservavo la punta di metallo che le scavava un tunnel biancastro nel palmo, e poi, quando lei l'estraeva e me la tendeva, facevo lo stesso. A un certo punto mi lanciò uno sguardo dei suoi, fermo, con gli occhi stretti, e si diresse verso la palazzina dove abitava don Achille. Mi gelai di paura. Don Achille era l'orco delle favole, avevo il divieto assoluto di avvicinarlo, parlargli, guardarlo, spiarlo, bisognava fare come se non esistessero né lui né la sua famiglia. C'erano nei suoi confronti, in casa mia ma non solo, un timore e un odio che non sapevo da dove nascessero. Mio padre ne parlava in un modo che me l'ero immaginato grosso, pieno di bolle violacee, furioso malgrado il “don”, che a me suggeriva un'autorità calma. Era un essere fatto di non so quale materiale, ferro, vetro, ortica, ma vivo, vivo col respiro caldissimo che gli usciva dal naso e dalla bocca. Credevo che se solo l'avessi visto da lontano mi avrebbe cacciato negli occhi qualcosa di acuminato e bruciante. Se poi avessi fatto la pazzia di avvicinarmi alla porta di casa sua mi avrebbe uccisa.

Aspettai un po' per vedere se Lila ci ripensava e tornava indietro. Sapevo cosa voleva fare, avevo inutilmente sperato che se ne dimenticasse, e invece no. I lampioni non si erano ancora accesi e nemmeno le luci delle scale. Dalle case arrivavano voci nervose. Per seguirla dovevo lasciare l'azzurrognolo del cortile ed entrare nel nero del portone. Quando finalmente mi decisi, all'inizio non vidi niente, sentii solo un odore di roba vecchia e DDT. Poi mi abituai allo scuro e scoprii Lila seduta sul primo gradino della prima rampa. Si alzò e cominciammo a salire.

Avanzammo tenendoci dal lato della parete, lei due gradini avanti, io due gradini indietro e combattuta tra accorciare la distanza o lasciare che aumentasse. M'è rimasta l'impressione della spalla che strisciava contro il muro scrostato e l'idea che gli scalini fossero molto alti, più di quelli della palazzina dove abitavo.